Dalle vanity metrics al data-driven marketing: come misurare meglio quello che è utile

Tutti sappiamo che i dati sono importanti nel mondo degli eventi. Ma come misurare davvero quello che è utile e trasformarlo in strumenti di pianificazione e azione? Con gli strumenti giusti, è ovvio, ma anche qualche tattica non guasta.

Da tempo sappiamo che i dati sono fondamentali nel mondo degli eventi.
Ci servono in fase di progettazione dell’evento, quando dobbiamo prevedere quello che succederà per cercare di governarlo al meglio.
Ci servono durante l’evento, quando ci consentono di avere il polso della situazione e, grazie all’occhio critico sviluppato con l’esperienza, di prevedere possibili crisi e agire d’anticipo.
Ci servono dopo l’evento, quando dobbiamo rendicontare i risultati a tutti i portatori di interesse (committenti, finanziatori, sponsor o anche noi stessi), fare un bilancio di quello che è andato bene e di quello che è migliorabile e farne tesoro per il futuro.
E poi si ricomincia, quando davanti a un nuovo evento da organizzare la prima – saggia – cosa da fare è voltarsi indietro e imparare dall’esperienza.

Chi è nel mondo dell’organizzazione eventi da qualche tempo, però, sa bene che per quanto i dati siano assolutamente fondamentali, non sempre è così facile governarli e trasformarli da ammassi di numeri e percentuali in informazioni utili, immediatamente leggibili e capaci di essere comunicate, condivise e trasferite velocemente e senza errori. Questo spesso succede perché parallelamente all’aumento della tecnologia che ogni giorno usiamo per organizzare gli eventi sono aumentati i dati che vengono prodotti, ma raramente questi sono stati altrettanto organizzati e resi utilizzabili dagli esseri umani, che sono digitali solo fino ad un certo punto.

Tutto quello che è digitale è misurabile
e quindi si traduce velocemente in dati

Quello che si è creato, quindi, è da una parte un progressivo scollamento tra la quantità (e qualità) dei dati disponibili, e, dall’altra, l’effettiva possibilità di utilizzare questi dati nel lavoro di tutti i giorni come strumenti di supporto alla professione e di renderli capaci di migliorare l’esperienza di evento per tutti coloro che devono frequentarlo. E sono nate due tendenze: la prima è quella che ha messo al centro del palcoscenico le cosiddette vanity metrics, l’altra invece ha spinto l’acceleratore su un data-driven marketing.
Inutile dire che noi siamo per la terza via, quella dell’equilibrio tra i due poli, e ora vi diciamo perché.

Cosa sono, da dove vengono e (soprattutto) a cosa servono le vanity metrics

Le metriche di vanità ti fanno sembrare attraente agli occhi degli altri ma non ti aiutano a capire le tue prestazioni in modo tale da poter dare forma alle strategie future. Quindi non servono a nulla? Non è del tutto vero.

Sappiamo tutti che certi numeri sono più comunicativi di altri e che possono avere impatti importanti sulla nostra psicologia tanto da farci compiere azioni di certo tipo ed evitarne altre.

Un esempio classico è quello dei like di Facebook. Sicuramente non hanno un impatto diretto su un business in termini di vendite, ma non è nemmeno vero che non valgono nulla. Quanto ai nostri occhi è più attraente un contenuto che è già piaciuto a molti? E vale anche se quel contenuto NON è piaciuto: solo per il fatto di aver stimolato un interesse diventa ai nostri occhi più interessante di un altro che non ha invece raccolto nessuna reazione. E ancora: di primo acchito segui più facilmente un profilo con 10.000 follower o uno con 10? Sicuramente se tante persone hanno già deciso di inserire quei contenuti nella propria dieta mediatica ci sarà una ragione. E lì scatta una sorta di fiducia per procura: mi fido perché si fidano gli altri.

Ecco, quindi. Saper identificare dall’insieme dei dati a disposizione quelli più capaci di supportare un’idea e di stimolare un comportamento è tutt’altro che ininfluente, anche nel mondo degli eventi. Quante persone si sono già iscritte a quell’evento che sto guardando da un po’? Tante? Ecco, allora manco solo io. Clic.
Dobbiamo dire altro?

Esistono però anche metriche non di vanità, che si chiamano di solito metriche “utilizzabili” perché possono essere adoperate per prendere decisioni informate sul business e azioni conseguenti. Sono, per semplificare, l’altra faccia della medaglia rispetto alle vanity metrics, ma non sono necessariamente più importanti. Sono solo diverse, soprattutto nell’uso che se ne può fare, e sono quelle alla base di una disciplina tanto di moda quanto importante se si vuole giocare davvero sul serio, ovvero il marketing basato sui dati.

Data-driven marketing: cosa è e come usarlo strategicamente

Il data-driven marketing parte dai dati disponibili per comprendere e decidere come impostare le proprie strategie ed iniziative di marketing.
Quindi tutto il marketing è data-driven?
Sostanzialmente sì, a meno che chi deve prendere le decisioni non lo faccia basandosi su altro che sui dati.

Certo, sicuramente l’esperienza e l’intuito sono elementi importanti che stanno alla base dei processi decisionali, ma difficilmente possono essere gli unici strumenti, non fosse altro perché poi i risultati non sono misurabili. Il data-driven marketing serve quindi ad avere a disposizione tutti gli elementi possibili (i dati) per prendere le decisioni prima, per tenere sotto controllo l’andamento delle attività e dei progetti durante il loro svolgimento, e per valutarne gli esiti alla conclusione. Fortuna vuole che, come già dicevamo prima, più si usano strumenti digitali nella progettazione e nella realizzazione delle attività e più è facile avere a disposizione i dati giusti per impostare ed eseguire correttamente tutti i passi della strategia. In questi casi, quindi, il rischio maggiore è quello di avere troppi dati a disposizione o di dover passare un sacco di tempo a recuperarli da strumenti e piattaforme multiple, per poi doverli magari ottimizzare perché misurano secondo parametri diversi le stesse cose.

Ed eccoci alle tattiche

Come evitare tutto questo?
Sicuramente un buon modo è avere una piattaforma unica alla quale fare riferimento per tutte le funzioni – o almeno la gran parte di esse – in modo che i dati prodotti siano tutti nello stesso posto e parlino tutti la stessa lingua, e siano cioè immediatamente operabili. L’altra strategia vincente è progettare insieme all’evento la raccolta dei dati significativi, in modo che siano effettivamente utili alle informazioni da fornire e alle decisioni da prendere. Questo non solo abbrevia i tempi di analisi e della loro trasformazione in informazioni utili, ma permette di tenere sotto controllo anche alcune variabili. Due esempi veloci: quando si progetta un questionario di gradimento potremo misurare le risposte, ma non sapremo mai quanto sono sincere, quindi prevedere domande di controllo ci permette di tenere a bada questa incertezza se per noi è molto importante poter avere dati affidabili. Se invece ho bisogno di sapere se le persone stanno effettivamente partecipando attivamente ad una sessione di formazione non potrò basarmi soltanto sulla loro permanenza in aula. I dati, infatti, misurano molto ma non tutto, misurano cosa si fa ma non come lo si fa. Avere presente questo prima, e non dopo aver raccolto i dati può fare davvero la differenza quando quei dati dobbiamo usarli davvero.

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